La vittima non vittimista, prova gratitudine verso chi la aiuta, perché il suo stato emotivo e mentale di dolore è ancorato ai fatti reali che glielo hanno prodotto e non ad intenzioni, seppure inconsce, di “sfruttare” l’altro per difendersi da antiche ferite irrisolte che si porta dietro dall’infanzia.
Il vittimista non riesce a provare gratitudine in quanto considera la relazione affettiva che la gratitudine svilupperebbe come un ambito potenzialmente inaffidabile. Ciò a causa di una mancata elaborazione della relazione primaria con la madre nella prima infanzia, vissuta come inaffidabile per fatti e comportamenti oggettivi e/o fantasmatici.
Provare gratitudine, fidarsi, aprirsi all’altro e quindi lasciarsi aiutare, amare e ad essere amati, nasconde lo spettro dell’abbandono e del tradimento, perciò piuttosto che provare gratitudine e amore per gli altri che vorrebbe aiutarlo, finisce con il trasformare gli altri ingrati, in persone incapaci di comprendere le sue esigenze, il suo amore, la sua bontà, e, naturalmente, i suoi dolori.
Sia la vittima e sia il vittimista, possono subire in quanto agenti passivi, una disgrazia, un tradimento, una manipolazione affettiva o di altro tipo, ad es., economica, tuttavia la vittima non vittimista non ha alcune intenzione di adoperare ciò che ha subito per relazionarsi in modo manipolatorio verso altri che non c’entrano nulla, o dai quali potrebbe addirittura ricevere aiuto e solidarietà. Spesso la vittima vuole anche evitare di far sapere quanto gli è occorso, e quindi di apparire vittima, se non al fine di poter ottenere un qualche effettivo risarcimento del danno subito. Al vittimista invece, paradossalmente, e da un punto di vista emotivo, non interessa tanto la riparazione del danno subito, quanto la possibilità di impiegare il danno subito per esprimere una sua problematica inconscia disturbante, che altrimenti non riuscirebbe ad esprimere, cosa che lo porterebbe sul baratro della depressione e finanche della dissociazione (psicosi).
Quando non vi sono colpevoli o potenziali carnefici finalizzabili a rafforzare la posizione di vittima, l’aguzzino diventa il destino ed il fato che viene considerato sempre avverso, come se si fosse vittima di una qualche predestinazione demoniaca che condanna alla sfortuna costante. Ed è questo un altro motivo per non fare niente e continuare a lamentarsi. Un altro aspetto tipico dello psichismo delle persone vittimiste, le porta a rimandare, a procrastinare o a non considerare tutte le azioni potenzialmente migliorative della loro condizione, ad un ideale “momento migliore”, che potrebbe anche però, a livello di realtà, non arrivare mai.
In ogni caso non si sta parlando di ‘vittimismo pretestuoso’, volto a giustificare la propria negatività nell’intento di far passare la vera vittima come il carnefice. Molto spesso, nella vita individuale, come nella società, e nella storia, si registrano situazione dove il carnefice si traveste da vittima allo scopo di criminalizzare gli avversari; così ad esempio le dittature si ergono spesso a protezione di ‘false vittime’, e si attribuisce la marca di terrorista o di criminale a coloro che lottano per la difesa della giustizia e della libertà. Non è questa la natura del ‘vittimismo patologico’ di cui stiamo parlando, in quanto chi ne è affetto, in modo cronico o transitorio, si sente veramente vittima, perciò considera non pretestuosa la sua condizione, e in tal senso può giungere a giustificare la sua difesa aggressiva verso i potenziali colpevoli. Tuttavia tende poi a comportarsi con dispotismo dittatoriale e criminalizzante, in quanto in nome della vittima con la quale si identifica, ritiene di essere autorizzato ad avere comportamenti negativi, fastidiosi, irritanti e manipolatori verso gli altri.
Il concetto di vittimismo patologico, definisce una situazione in cui il soggetto, è parte attiva nel creare una condizione di disagio e malessere psicofisico più o meno grave a sé stesso ed è solito poi lamentarsene con gli altri, con lo scopo di svalutarli facendoli sentire impotenti ed incapaci. In tal modo li punisce, e quindi, credendosi vittime si erge assai a carnefice psicologico, spesso, purtroppo di persone innocenti, che non c’entrano nulla, o che addirittura volvano essere di sostegno e di aiuto.
Tutto ciò mette a grave rischio la possibilità di maturare la propria personale evoluzione di essere umano e di instaurare delle costruttive ed armoniose relazioni con gli altri, nella famiglia, nell’amicizia, nel campo sociale, del lavoro e nella vita amorosa.
Riassumendo, alcuni punti, notiamo che alcune caratteristiche comuni di base del vittimismo, sono le seguenti: 1) negazione della responsabilità personale; 2) accuse, diffidenza, svalutazione e invidia verso gli altri; 3) focalizzazione in modo rigido sul proprio stare male 4) Dinamiche evasive di manipolazione e sabotaggio della relazione di sostegno e cura.
Dobbiamo sempre aver presente, a livello di consapevolezza umana e terapeutica, che il vittimista, è stato comunque realmente una vittima di processi inconsci infantili, dei quali la madre o le figure di attaccamento primario possono essere più o meno inconsciamente responsabili. Il vittimista non è una persona che finge di soffrire, ma è una persona che soffre moltissimo e che per evitare che questa sofferenza lo conduca alla depressione o alla follia, adotta la disturbata e disturbante strategia psicopatologica del vittimismo.
(Per il momento, per quanto importante per comprendere il concetto di guarigione fatta di sabato per scindere quel legame dal male e quello di ipocrisia, tralascio l’ analisi di questa seconda parte dell’episodio descritto da Luca.)
La descrizione fatta da Luca di tutto questo episodio, è molto vivida e di grande portata simbolica. Infatti la donna, priva di diritti da una parte e che a causa della sua afflizione ossea dall’altra, era costretta a tenere la faccia sempre rivolta a terra, è simbolo non solo degli ultimi, dei poveri e degli afflitti che camminano a testa bassa sulla terra, che non osando più guardare il cielo perché piegati dal rimorso dei loro peccati o perché chiusi nei loro egoismi e ricordiamo che il vittimismo è anche una forma celata di egoismo verso gli altri e verso la gratuità della vita che ci è stata donata; quella donna, è anche simbolo, a livello religioso, di un legame satanico ( E a livello psicologico, di un “male” che ci affligge). Infatti, in questo singolo ma ben concatenato episodio narrato solo da Luca e con molta efficacia, la donna curva in sé, rappresenta una donna piegata e schiacciata dai pesi della vita e dalla sua condizione di schiavitù fisica e morale, ma anche, rappresenta un legame satanico, dal quale Gesù la libera. Un legame quindi, con il male, ovvero con l’assunzione in sé di atteggiamenti negativi ed autodistruttivi, che la facevano sentire da tanto tempo completamente piegata o “incurvata”, dalla e verso la vita ( Luca infatti, che era un evangelista medico, afferma, in proposito e sembrerebbe volontariamente, per rafforzare l’enfasi del miracolo della guarigione e del cambiamento della sua postura , dapprima: “Non poteva alzarsi in nessun modo da 18 anni” e, dopo l’intervento di Gesù: “Subito si alzò” ).
Un male che come abbiamo detto, in lei si manifestava con i sintomi di una malattia ossea, impedendole di assumere la posizione eretta e di alzare lo sguardo verso l’alto. E la posizione ortostatica, cioè eretta era considerata allora una posizione che distingueva l’essere umano dagli animali, così come il cielo, oltre al suo valore spirituale, era simbolo della ragione e del discernimento. Il cielo, rappresenta infatti la “luce” della mente, contrapposta all’ombra ed all’oscurità, al rapporto primitivo ed esclusivo con la terra. Era come se quella donna, fosse costretta a controllare ed a misurare ogni suo passo.
Questo passo del Vangelo, che ci parla attraverso l’episodio di questa donna “incurvata”, di un’umanità incurvata dal suo legame con satana, cioè, schiava e schiacciata dal peso del male ed incapace di discernere. In altri termini si tratta del peso del rimosso o del rimorso, aspetti archetipici presenti in ognuno di noi, quelli propri dell’Ombra, nei quali covano le nostre rabbie ed i nostri desideri di rivalsa, così come le parti più distruttive da cui ognuno di noi, può essere come posseduto in certe occasioni, fino a condizionare negativamente la coscienza e quindi a renderci agenti del male verso gli altri e verso se stessi.
INTRODUZIONE
Le persone che si comportano in modo vittimistico vivono in una persistente e involontaria sfiducia verso gli altri e verso le possibilità positive della vita, attraverso l’irrigidirsi di meccanismi difensivi disfunzionali. Queste persone possono essere aiutate a migliorare la propria condizione generale di vita e la propria autostima quando si comprendo le ragioni psicologiche profonde del loro disagio interiore che le induce ad accusare gli altri e a non vedere mai le proprie responsabilità. Il recupero dell’autostima è fondamentale per uscire dal vittimismo patologico, ma a tal fine bisognerebbe essere capaci di un minimo di autocritica, cosa che purtroppo non c’è, o al massimo è simulata. Per diverse ragioni il comportamento vittimistico può essere considerato come una particolare forma di ‘narcisismo patologico’ che amplifica l’immagine dell’ego attraverso l’acquisizione di un potere sugli altri basato sulla colpevolizzazione, il ricatto affettivo, l’esaltazione del proprio Io attraverso la sofferenza effettiva, ma anche ingigatita, iperesibita e talvolta simulata.
Per aiutare il vittimista patologico occorre un complesso processo psicoterapeutico, di ascolto e di alleanza totale. La minima osservazione delle sue responsabilità può invalidare la relazione terapeutica. Il rischio è dunque quello di fortificare la posizione vittimista che trova nella psicoterapia la possibilità di ‘crogiolarsi’, fino a convincersi che è la poisizione ‘giusta’ da ricercare anche con gli altri. E’ comunque importante che chi si pone come vittimista patologico cronico possa confidare a qualcuno la sua vita e i suoi sentimenti e disagi più profondi. Allora può riuscire ad entrare in contatto con parti emotivamente importanti e parzialmente scisse di sé, in tal modo possono riconoscere quali sono state le fasi e le relazioni veramente dolorose della sua vita, e quindi distinguerle rispetto a ciò che ci è stato di positivo. In effetti quando si riconoscerà che la vita ha detto NO, ma ha detto anche SI’, allora si incomincerà ad uscire dal vittimismo assoluto, ci si comincerà a porre il problema di come ottenere i SI’ e quindi come fare a migliorarsi… si scoprirà che la prima cosa da fare è imparare ad esercitare una corretta e giusta capacità di autocritica e che per molti aspetti si è stati inconsapevolmente vittima di se stessi.
Vittime o vittimisti?
Tutti noi possiamo subire dei torti, piccoli o grandi, o vere e proprie ingiustizie il che provoca certamente dispiacere, ma non necessariamente il sentirsi ‘sempre vittima di tutto e di tutti’. Il vittimista è convinto di subire torti sempre e da chiunque: nell’ambito famigliare e lavorativo, nella coppia, nell’amicizia.
Generalmente, seppure con grande spirito di sopportazione, possiamo affrontare certe offese con l’aiuto della razionalità, ed anche rivolgendoci ad altri per avere sostegno. Possiamo sopportare soprusi e vessazioni da coloro verso i quali pensavamo di poterci fidare anche volgendo altrove la nostra attenzione creativa e ricettiva, costruendo per noi stessi nuovi impegni, situazioni e relazioni volte a fare del nostro meglio. Inoltre possiamo cercare una riconciliazione con chi ci ha offeso e ferito. Talvolta possiamo anche riconoscere che un torto subito deriva da incomprensioni reciproche; con ciò individuiamo una nostra quota di responsabilità. In ogni caso, seppure entriamo in crisi e ci addoloriamo, è naturale il desiderio e l’impegno per uscire dalla situazione critica, dalla quale ci si vuole liberare.
La persona vittimista invece, di fronte alle difficoltà e alle ingiustizie della vita, quelle piccole come quelle grandi, tende a reagire senza volersi veramente liberare della sofferenza, al fine di trarre da essa una forma patologica di difesa psicologica. Essenzialmente si tratta di una difesa non tanto verso gli altri, quanto verso fattori psichici suoi interni: inconsci disturbanti e risalenti alla prima infanzia. Quindi, in un certo senso, la persona vittimista, piuttosto che voler superare la sofferenza tende a crogiolarsi in essa, a trarne un qualche assurdo vantaggio difensivo/aggressivo.
Ciò avviene soprattutto se considera di poter impiegare le proprie pene, ad es. un proprio disturbo fisico, un proprio malessere o disagio esistenziale, come modo per verificare il suo potere nell’ambito di ogni relazione, specialmente quelle affettive. Il vittimista sembra richiedere l’attenzione totale degli altri, fino al punto che agli altri, ai quali viene mostrata la sofferenza, non viene riconosciuta alcuna esigenza e libertà personale, neppure relativa a problemi e sofferenze, che vengono comunque considerate secondarie. In genere il vittimista tende a confortare le sofferenze altrui superficializzandole, con una sorta di fatalistico ottimismo, che se fosse impiegato nei suoi confronti gli provocherebbe vere e proprie crisi di odio e di rabbia. Basta un niente affinché gli altri possano essere accusati di disinteresse, incomprensione e tradimento della relazione affettiva. In tal senso il vittimista patologico si sente assai ferito dagli altri – anche solo perché non lo comprendono - e crede di essere sempre e comunque la vittima innocente di potenziali carnefici. Da tale conflitto reagisce in modo da trarre un potere psicopatologico, basato sull’esaltazione dell’offesa subita, nonché della sua impotenza, del suo dolore, al fine di colpevolizzare non solo il colpevole o presunto tale, ma gli altri in generale, e, in modo assurdo, persino coloro che cercano di offrire il loro aiuto. Seppure il vittimista tende a costruire con chi lo aiuta una relazione di complicità, questa è volta a fortificare il vittimismo stesso. Qualora la persona che aiuta tenti di depotenziare la posizione vittimista o si rifiuti di suffragarla sempre e comunque, la relazione di complicità si commuta in conflitto. E’ difficilissimo uscire fuori dal paradosso per cui chi aiuta un vittimista viene impiegato dal vittimista per fortificare il suo vittimismo, e quindi l’idea di non poter essere aiutato da nessuno, ma al fine solo ferito e tradito… e così via.
La persona vittimista non è in grado di riconoscere le proprie responsabilità, e se si cerca di fargliele notare si sente aggredita.
La difesa vittimistica è dunque una difesa dai propri fantasmi persecutori interiori, formatisi nell’inconscio a causa di una relazione disturbata con la madre, e poi con l’ambiente famigliare.
La realtà, viene però letta in modo deformato dalla persona vittimista, a causa di antiche e precoci difese – o difese “nella” difesa - che ancora permangono attive. Infatti, il vittimismo è una difesa ad es. per non sentire non solo il dolore ma anche l’impotenza generata da un rifiuto, di cui da bambini sono state fatte oggetto e che esse, inconsciamente, spesso tendono ripetitivamente, a suscitare negli altri, magari con continue lamentele, per poi riattivare le stesse difese con una giustificazione apparentemente valida. Spesso dopo aver suscitato negli altri una reazione negativa, le persone vittimiste, tendono ad accusarli di non essere comprensivi o di essere impazienti o di non fare abbastanza, centrando sempre la loro attenzione su “qualcosa” che dovrebbe cambiare o “qualcuno” al d fuori d loro stesse, che dovrebbe pentirsi. In fondo,, a ben guardare, è anche un po’ come se fossero dei bambini che in “tutti” , accusano i loro genitori per ciò che è accaduto nella loro infanzia. Avendo inoltre difficoltà a distinguere tra le persone e le loro azioni, tendono a fare delle letture improprie sia delle prime che delle seconde e ad arrabbiarsi spesso inutilmente ma dannoso per la loro stessa salute ed in modo quindi, solo autodistruttivo per motivi che solo loro individuano.
IL PROBLEMA PIU’ TRISTE E DISTURBANTE DEL VITTIMISMO PATOLOGICO, DI CARATTERE CRONICO O TRANSITORIO, E’ CHE SI VEDE SOLO IL MALE E LA DIFFICOLTA’ IN OGNI SITUAZIONE DELLA VITA, COSI’ SI DIVENTA NEGATIVI E SI TENDE A TRASMETTERE AGLI ALTRI TALE NEGATIVITA’ E DI CONSEGUENZA A RICEVERLA INDIETRO. E’ FONDAMENTALE SPEZZARE QUESTO CIRCOLO VIZIOSO, PRENDENDO COSCIENZA DELLA PROPRIA CONDIZIONE INTERIORE OSCURATA DA UN MALESSERE RIMOSSO E INCONSAPEVOLE, AL FINE DI TORNARE AD ESSERE CAPACI DI VEDERE CHE ESISTE SEMPRE ANCHE IL BENE, QUINDI DI POTERLO TRASMETTTERE ED AVERE IL CORAGGIO E LA GIOIA DI VIVERE NELL’ENERGIA DEL BENE, QUALUNQUE COSA ACCADA.
Il vittimista e il suo consolatore
Il sentimento del vittimismo patologico ha una sua corrispondenza con la figura del ‘martire’, solo che il martirio non viene volta ad una qualche nobile causa, seppure con esaltazione e maniacalità, quanto ad esercitare un proprio potere negativo e punitivo verso gli altri, ritenuti in qualche modo responsabili del proprio malessere, per inettitudine ed anche per vera e proprio malignità. La persona vittimista la causa prima del suo malessere sia in essa stessa, ciò corrisponderebbe alla pazzia, ad una mostruosità persecutoria interna dalla quale non saprebbe come liberarsi. Perciò, la persona vittimista, tende a considerarsi sempre oppressa da qualcosa di insopportabile, si sente ostacolata dagli altri e dalle circostanze e di ciò si lamenta continuamente, ma in tal modo si sente rassicurata dall’idea che le forze ‘cattive’ sono al di fuori di se stessa. In prima istanza la lamentela reiterata serve per ottenere attenzioni dagli altri, ma poi questi stessi altri vengono svalutati perché incapaci di consolare. Spesso gli ‘altri’, dopo aver invano sopportato le lamentele del vittimista patologico, riscontrano di non essere di non poter essere di alcuno aiuto, se non come deposito di tali lamentele delle quali devono condividere passivamente il dolore.
Consigli, gesti di affetto e di solidarietà, vengono considerati dal vittimista con una certa sufficienza, e senpre con una punta di sfiducia. Se il ‘consolatore’ non si scoraggia e quindi si prodiga di consolare la vittima, deve a sua volta dimostrare di essere a sua volta vittima di qualcos’altro, di qualcun altro, altrimenti il vittimista chiede sempre di più e diffida di ogni aiuto e consiglio. Infatti il ‘consolatore’ , che può essere un terapeuta, o una persona amica, o un parente, per poter consolare dovrebbe stare bene, o almeno in una posizione migliore della vittima. Ecco allora che la vittima ‘patologica’, vive questo consolatore con un inconscio senso di invidia, fino al punto di disprezzarlo giacché dal momento che questi sta bene, o solo benino, data la sua capacità di consolare, non sarebbe autentico e sincero, in quanto non condividerebbe il dolore della vittima.
Sono evidenti dinamiche infantile che la Melanie Kleine attribuisce a sentimenti contraddittori di “Invidia e gratitudine” che nella primissima infanzia possono essere elaborati in modo disfunzionale e patologico verso la madre, primaria figura di accadimento e consolazione. La madre viene vissuta come ‘seno buono’ e ‘seno cattivo’, il primo viene desiderato, ma anche invidiato, il secondo diventa tale anche per il solo fatto che la madre non può essere sempre e costantemente e totalmente disponibile e capace di far fronte a tutte le frustrazioni dell’infante. In pratica se all’infante viene un mal di pancia, la colpevole sarebbe la madre che non è stata capace di impedirlo, quindi essa è cattiva, in quanto ‘seno cattivo. Si tratta di dinamiche che esasperandosi possono diventare deliranti, che il bambino può rimuovere nell’inconscio senza essere veramente riuscito ad elaborare e superare e che quindi ritornano nella vita adulta anche nella forma del ‘vittimismo patologico’ che stiamo esaminando.
In genere il vittimista patologico assume le vesti di chi non porta rancore e dimentica, in nome dell’affetto che sente verso il suo ‘fallimentare e fallito consolatore’. Inoltre spesso nel consolatore subentrano sensi di colpa per il dispiacere di aver ferito la persona che si voleva consolare. Si instaura quindi una dinamica distorta di sentimenti e interpretazioni che configgono e si contraddico, dove il consolatore viene ad un tempo mantenuto tale, destabilizzato, manipolato, colpevolizzato e perdonato. Ciò è fondamentale in quanto una relazione di collaborazione gratitudine verso il consolatore vorrebbe assurdamente significare di rendersi complici del ‘nemico’ più pericoloso, quello che qualora riuscisse a consolare farebbe crollare la difesa vittimistica, trasformando la vittima in ‘vittima di se stesso’, e quindi portando alla luce un conflitto interno distruttivo, un inferno senza vincitori, né vinti, senza via d’uscita… eppure solo quando il vittimista volgerà lo sguardo al carnefice che ha in se stesso che uscirà dall’inferno ed entrerà nel purgatorio, cioè in una dimensione che, sebbene sofferente può essere sostenuta e quindi consolata verso la guarigione.
Un caso risolto di ‘scoliosi vittimistica’ nel Vangelo di Luca
Un ‘disturbo psicosomatico’ riconducibile al vittimismo patologico è la cosiddetta ‘scoliosi isterica’ In buona sostanza a causa di tensioni muscolari di natura psicogena vi possono essere distorsioni della spina dorsale che con il tempo, se non curate, tendono a diventare sempre più evidenti. Può però accadere che il vittimisma patologico consideri, più o meno inconsciamente che, favorire una postura nella quale risulta evidente la sua sofferenza, come quella di camminare a capo chino o, come si dice ‘piegato in due’, metta in evidenza costantemente la sua condizione di vittima, traendone i paradossali vantaggi difensivi e quindi psicopatologici dei quali abbiamo parlato. Perciò a lungo andare il disturbo della spina dorsale che tende a piegarsi in avanti diventa sempre più accentuato e si aggrava effettivamente in modo pietoso, dal momento che non solo non è stato contrastato attraverso terapie specifiche alle quali il vittimista con varie scuse si è sempre sottratto, ma anche perché la posizione scorretta è stata accentuata fino a farla diventare una abitudine, considerata come la forma più plateale per ostentare il proprio vittimismo patologico.
E’ alquanto toccante riflettere su un caso di ‘scoliosi vittimistica’ riportato nel Vangelo di Luca, il quale nel narra l’episodio della “Guarigione della donna curva” (Verso 13, 10-17). Avendo presente che ai tempi di Gesù, le donne non avevano diritti, esse erano molto adatte a rappresentare simbolicamente, tutti coloro che erano considerati, per qualche motivo, “gi ultimi”, chiunque vivesse in una condizione di schiavitù non solo fisica ma anche morale. La donna poi, da sempre, viene considerata ricettiva e nelle tradizioni antiche, ciò significava che essa lo era, per sua natura, anche nei confronti del male. Inoltre, dobbiamo considerare che all’epoca, anche gli infermi, erano mal visti, perché essendo sconosciuta l’origine della maggior parte delle malattie, ritenuti come segnati dal demonio. Per questo motivo, né le donne né gli infermi né i deformi, potevano entrare nelle Sinagoghe. Luca narra che un sabato durante il suo viaggio, Gesù stava predicando in una Sinagoga e qui, avvenne un fatto insolito. Infatti, una donna che Luca descrive come “curva in sé” e che “non poteva alzarsi in nessun modo”, da 18 anni, stava ad ascoltarlo. Gesù la vide e la chiamò a sé , quindi le disse : “ Donna, alzati, sei libera dalla tua infermità” e le impose le mani. “Subito quella si alzò” e glorificò Dio.( Luca 13, 10/13)
Questa guarigione è compiuta da Gesù su una donna ammalata ed all’interno di una Sinagoga, per di più nel giorno di sabato, dedicato tradizionalmente, al riposo. Quindi, ha molteplici significati sia teologici che psicologici, che sono quelli che principalmente, cercheremo di evidenziare. La doppia connotazione di donna ed ammalata, è molto importante in questo racconto. Quella donna essendo priva di diritti ed incurvata dall’artrosi, forse da una scoliosi molto grave che costringendola a camminare ormai da lungo tempo, a “testa bassa”, le impediva anche di alzare lo sguardo, facendone quindi, una donna sottomessa al male ed alla presunta superiorità dello stesso sulle sue forze ed anche agli altri, che lei non poteva più guardare direttamente né interagire con gli essi alla pari; inoltre, il male da cui era afflitta, le impediva di poter guardare il cielo e pregare così direttamente Dio. Essa, era cioè costretta a guardare sempre in terra, vittima di quel male che per 18 anni, l’aveva “tenuta legata a sé “, facendola vivere in una condizione di sminuita umanità e, non chiedeva niente per sé, tanto che fu Gesù a vederla e a chiamarla a sé per liberarla. Ma per comprendere meglio ciò e connetterlo con il resto del nostro discorso sul vittimismo, proviamo a proseguire nel racconto che ci fa Luca, in modo molto vivido, di quell’episodio.
DOBBIAMO IMPARARE A RALLEGRARCI DI PIU’, A RIDIPINGERE LA VITA DI NUOVI COLORI, E IMPARARE A LAMENTARCI DI MENO; COSI’ FACENDO LE COSE ANDRANNO CERTAMENTE MOLTO MEGLIO PER TUTTI. NON SI TRATTA DI SEMPLICISTICO OTTIMISMO, MA DI LIBERARSI DAL MALE DEL QUALE E’ POSSIBILE LIBERARSI DI SICURO: QUELLO CHE DIPENDE DA NOI STESSI.
da Il vittimismo patologico: una riflessione per guarire per i familiari, per i terapeuti e per tutti coloro che vogliono aiutare le "vittime di sé stessi" di Pier Pietro Brunelli e Elisabetta Lazzar.